Le schede - attori - Teatro Dialettale Stabile della Regione Ligure

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Le schede - attori

schede

Pietro Scotti: 1936 – 2004.


Sarà perché gli era capitato di nascere dentro quel cielo di Genova, sopra un porto che era ancora un porto.
Sarà perché la città gli entrava ogni giorno negli occhi, dal terrazzo, così aggettato sull’antico Palazzo San Giorgio.
Sarà perché la città gli entrava ogni giorno negli occhi, dal terrazzo, così aggettato sull’antico Palazzo San Giorgio.
Sarà perché quei vicoli e quelle piazzette, così precipiti a Sottoripa, erano ogni giorno il suo campo di calcio senza reti, il suo giro d’Italia disegnato col gesso sull’acciottolato, il suo prato da golf percorso giocando la lippa, il suo bosco di fate e di gnomi, di alberi e di fiori, di ruscelli e di animali.
Sarà perché a quindici anni, ancora in pantaloni corti, scelse l’officina invece della scuola e smise subito d’essere fanciullo, imparando il suo genovese in quella Via Madre di Dio d’allora, botteghe e rigattieri, artigiani e rincorrersi di ragazzi, voci e colori che spariranno in una colata di cemento della Genova anni sessanta.
O forse sarà semplicemente perché a un prete di San Lorenzo, la sua parrocchia, un giorno, venne in mente di mettere su una compagnia recitante, rigorosamente solo maschile, per passatempo e per diletto, per tenere occupati quei ragazzi che crescevano in fretta e l’oratorio gli andava sempre più stretto, quei loro voli di fantasia che era bene in qualche modo acquietare senza tarpargli le ali.
I sentieri degli innamoramenti sono infiniti e imperscrutabili.
Anche innamorarsi del fare teatro, di salire sul palcoscenico, di recitare, è un innamoramento difficile da spiegare, per uno così apparentemente sotto traccia, una parola di meno che una di più, un sorriso che stenta a diventare risata, uno sguardo senza sfide e così addolcito da un filo appena di malinconia.
Ma avvenne.
A un certo momento della vita, Pietro Scotti si scoprì innamorato di teatro.
In parrocchia, forse. Per gioco, certamente. Una piccola radice che avrebbe fruttificato molti anni dopo.
Più o meno s’era nella seconda metà degli anni cinquanta.
I testi delle commedie si trovavano alla Libreria dell’Arcivescovado, in Piazza Matteotti, a fianco del portale della casa vescovile, dove abitava il Cardinale Siri.
Erano trame semplici, racconti brillanti di giovani amori dove non si vedevano mai ragazze, gialli improbabili senza ombra di violenza,  ricostruzioni storiche tanto fantasiose quanto approssimative, storie edificanti di varia umanità e di incerta sceneggiatura.
Il suo primo teatro fu uno splendido e decadente salone al primo piano del trecentesco Palazzo Squarciafico, che ancora oggi , ben ristrutturato, si affaccia sulla medioevale Piazza Invrea, vicinissimo alla chiesa Cattedrale di San Lorenzo.
A un certo momento, anche per ragioni di sicurezza,  le rappresentazioni dovettero però traslocare nella Sacrestia della Cattedrale, con accesso da Via Tommaso Regio, che fu così il suo secondo teatro
La sacrestia era vasta e vagamente grandiosa come si conviene alla sacrestia di una cattedrale: una fila di antichi confessionali sulla destra, grandi armadi alle pareti che contenevano le vesti liturgiche, una profonda nicchia con un altare di marmo bianco.
Lo zio falegname costruì un palco completamente smontabile, vero e proprio capolavoro di ingegneria del legno e di abilità artigianale.
Sotto i suoi ordini, attori e volenterosi montavano il palco e lo smontavano alla fine della rappresentazione.
Un buon parrocchiano, di mestiere elettricista, si occupava delle luci.
Ragazze e pie donne erano addette a sistemare le file di sedie per il pubblico.
La rappresentazione forse più memorabile di quella stagione di teatro da dilettanti assolutamente allo sbaraglio, fu un gagliardo "Cardinale Lambertini", celebre opera teatrale di Testoni, cavallo di battaglia di Ermete Zacconi, prima, e di Gino Cervi, dopo.
Pietro Scotti vi interpretò, con molta immedesimazione, la parte del giovane Carlo, il figlio del cameriere del Cardinale, l’innamorato della bella Ilaria, della quale s’invaghisce però il malvagio comandante delle truppe spagnole d’occupazione.
Dopo le tante recite parrocchiali, Pietro Scotti si prese una pausa molto lunga.
La vita lo portò inevitabilmente altrove, dove è giusto che lo portassero il matrimonio, la nascita delle figlie, il lavoro.
Il teatro messo nel cassetto dei sogni, senza gran rimpianto, probabilmente, ma con quel pizzico appena di rimorso che si sente per le cose che hai in qualche modo dentro e che ti sarebbe piaciuto fare.
Nella vita, del resto, i tuoi sogni, se sono davvero sogni, puoi sempre tirarli fuori dal cassetto, genuini come quando ve li avevi riposti.
Per Pietro Scotti, questo avvenne, grosso modo, nei primi anni del decennio ’70.
L’occasione gli fu offerta da
Pietro Scotti vi interpretò, con molta immedesimazione, la parte del giovane Carlo, il figlio del cameriere del Cardinale, l’innamorato della bella Ilaria, della quale s’invaghisce però il malvagio comandante delle truppe spagnole d’occupazione.
Dopo le tante recite parrocchiali, Pietro Scotti si prese una pausa molto lunga.
La vita lo portò inevitabilmente altrove, dove è giusto che lo portassero il matrimonio, la nascita delle figlie, il lavoro.
Il teatro messo nel cassetto dei sogni, senza gran rimpianto, probabilmente, ma con quel pizzico appena di rimorso che si sente per le cose che hai in qualche modo dentro e che ti sarebbe piaciuto fare.
Nella vita, del resto, i tuoi sogni, se sono davvero sogni, puoi sempre tirarli fuori dal cassetto, genuini come quando ve li avevi riposti.
Per Pietro Scotti, questo avvenne, grosso modo, nei primi anni del decennio ’70.
L’occasione gli fu offerta da Giorgio Grassi, che teneva audizioni e scuola per il Teatro Dialettale della Regione Liguria, nel generoso tentativo di recuperare quella tradizione di teatro popolare di grande spessore che aveva avuto in Gilberto Govi – morto nel 1966 – il suo inarrivabile epigono.
La sintonia fra i due – Giorgio Grassi e Pietro Scotti – fu immediata, tanto che l’esordio del nuovo attore avvenne subito, senza tanta scuola di recitazione di mezzo.
La sua voce naturalmente impostata per la scena convinse Grassi a farlo esordire in
La sintonia fra i due – Giorgio Grassi e Pietro Scotti – fu immediata, tanto che l’esordio del nuovo attore avvenne subito, senza tanta scuola di recitazione di mezzo.
La sua voce naturalmente impostata per la scena convinse Grassi a farlo esordire in "Ghe’a ‘na votta un paise", dove interpretava – un po’ paradossalmente e forse per via di quel cognome in comune con il famoso Tino Scotti, il milanesissimo cavaliere ghe pensi mi di quei tempi – la parte di un milanese, dall’inevitabile nome di Ambrogio.
Da quel momento in poi, la sua crescita professionale sulla scena fu costante e continua.
Finalmente, aveva tirato fuori dal cassetto il suo sogno di tanto tempo prima.
Certo, avrebbe sempre navigato dentro quel teatro minore che è un po’ ovunque il teatro dialettale, oggi più di ieri.
Ma questo non era importante. - Quando sali su un palco senti comunque l’odore polveroso del legno, quando entri in un personaggio vivi comunque in simbiosi con una proiezione onirica di te stesso, quando riesci a far sorridere una vecchia signora in prima fila o una giovane ragazza laggiù in fondo alla sala senti comunque di rappresentare un’allegoria positiva della vita.
Strana passione, il teatro, vero Pietro Scotti?
Una passione che diventa sempre più impegnativa.
Come quando la sera, dopo una giornata di lavoro, devi andare alle prove e magari te ne staresti volentieri in casa. Come quando la domenica pomeriggio, invece di andare a vedere la partita, ti devi presentare in scena.
Come quando devi prendere la macchina e andare in giro per i paesi della Liguria facendo tardi, con quel gran caldo sotto le luci del palcoscenico.
Impossibile ricordare i tanti titoli del suo repertorio, sgranato lungo una trentina d’anni di recite. Basterà ricordarne qualcuno, in ordine sparso.
Da quel momento in poi, la sua crescita professionale sulla scena fu costante e continua.
Finalmente, aveva tirato fuori dal cassetto il suo sogno di tanto tempo prima.
Certo, avrebbe sempre navigato dentro quel teatro minore che è un po’ ovunque il teatro dialettale, oggi più di ieri.
Ma questo non era importante. - Quando sali su un palco senti comunque l’odore polveroso del legno, quando entri in un personaggio vivi comunque in simbiosi con una proiezione onirica di te stesso, quando riesci a far sorridere una vecchia signora in prima fila o una giovane ragazza laggiù in fondo alla sala senti comunque di rappresentare un’allegoria positiva della vita.
Strana passione, il teatro, vero Pietro Scotti?
Una passione che diventa sempre più impegnativa.
Come quando la sera, dopo una giornata di lavoro, devi andare alle prove e magari te ne staresti volentieri in casa. Come quando la domenica pomeriggio, invece di andare a vedere la partita, ti devi presentare in scena.
Come quando devi prendere la macchina e andare in giro per i paesi della Liguria facendo tardi, con quel gran caldo sotto le luci del palcoscenico.
Impossibile ricordare i tanti titoli del suo repertorio, sgranato lungo una trentina d’anni di recite. Basterà ricordarne qualcuno, in ordine sparso.
"L’ommo e so stracce" (1976), con la regia di G. Grassi; "Casello 45" (1981), dove è il figlio di Mario Dighero, un mostro sacro del teatro dialettale genovese; "L’amo o resta de longo un figgeu"(1982) traduzione e adattamento genovese del famoso "Gallina vecchia" del fiorentino Augusto Novelli, dove dà asciutto risalto – come scrive la critica – all’uomo maturo che aspira a sposare, appunto, la gallina vecchia; "Vitta co-a seuxoa" (1983), dove dà volto e voce a un vedovo in piena crisi esistenziale; "A rostie sotto a ceine" (1986), commedia che rappresenterà, nel 1995, anche il suo esordio di regista, con la figlia Alessandra in scena, che seguirà poi per un po’ le orme paterne, con buon successo di giovane attrice e di giovane regista; "Regio de dina" (1989), dove, assieme alla grandissima Santa Grattarola
, dà vita a una coppia di astuti e comicissimi genitori; "I rattaieu" (1992), nei panni di un imprenditore che conta buone raccomandazioni a livello politico e ministeriale; "A foa do bastento" (1994) in cui veste i panni di un vecchio e accanito fumatore che si ribella agli ordini del medico della casa di riposo che ospita lui e altri vecchi ribelli; "Delitti all’aegua de reuza" (1996), un giallo comico con vaghe reminiscenze di "Arsenico e vecchi merletti"; "L’imbroggio de Arensen" (1998), commedia nella quale veste la maschera di un papà di mezza età – e un po’ oltre – che ha il forte desiderio di un nipotino che non arriva; "Semmu misci scia marcheisa" (2000), nella parte del maggiordomo che tenta di nascondere in ogni modo alla sua padrona, della quale è segretamente innamorato, le  disastrate condizioni economiche in cui essa si trova; "O barba Gioxe" (2002) , dove, diretto dalla figlia Alessandra, offre, come scrive la critica, una delle sue più belle interpretazione, dando umanità alla figura un pensionato postelegrafonico moralista che si adopera con molto buon senso per mettere a posto i comportamenti non esemplari dei condomini; "Innamoase a settantanni" (2004), nelle vesti di un vecchio benestante, a suo tempo attore di buona fama, che deve farsi assistere da una vecchia badante, che fu oggetto del suo innamoramento all’età di sedici anni. Rifiorirà l’amore e ….
Scriverà la critica di questa, che resterà la sua ultima interpretazione: "… Pietro Scotti interpreta la parte dell’anziano innamorato rivendicando il diritto all’amore con sincera convinzione"; "…. non certo ultimo per bravura Pietro Scotti che, impegnato nel personaggio di Maxo per tutta la durata della commedia, sa essere convincente nei toni sentimentali e saggiamente comico nelle situazioni più inconsuete"
La giuria per il teatro dialettale genovese GENOVA CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2004 lo premierà alla memoria proprio" … per la sua memorabile interpretazione nella commedia
Scriverà la critica di questa, che resterà la sua ultima interpretazione: "… Pietro Scotti interpreta la parte dell’anziano innamorato rivendicando il diritto all’amore con sincera convinzione"; "…. non certo ultimo per bravura Pietro Scotti che, impegnato nel personaggio di Maxo per tutta la durata della commedia, sa essere convincente nei toni sentimentali e saggiamente comico nelle situazioni più inconsuete"
La giuria per il teatro dialettale genovese GENOVA CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2004 lo premierà alla memoria proprio" … per la sua memorabile interpretazione nella commedia "Innamoase a settantanni" di Gian Carlo Migliorini".
Nell’agosto di quel 2004, infatti, Pietro Scotti se ne era improvvisamente andato.
Di lì a poche ore avrebbe dovuto salire sul palco, a Varese Ligure.
Per far sorridere e forse un poco commuovere il suo pubblico, come si diceva una volta, in una notte serena, appena ventilata, fresca di mare e di Appennino.
Non fu così.
Era arrivato al suo capolinea.
Scese in silenzio dal treno della vita, senza neanche mugugnare, come gli sarebbe spettato da buon genovese.
Chissà! Forse persino con un sorriso, rivivendo in un attimo la sua splendida vita.

Nell’agosto di quel 2004, infatti, Pietro Scotti se ne era improvvisamente andato.
Di lì a poche ore avrebbe dovuto salire sul palco, a Varese Ligure.
Per far sorridere e forse un poco commuovere il suo pubblico, come si diceva una volta, in una notte serena, appena ventilata, fresca di mare e di Appennino.
Non fu così.
Era arrivato al suo capolinea.
Scese in silenzio dal treno della vita, senza neanche mugugnare, come gli sarebbe spettato da buon genovese.
Chissà! Forse persino con un sorriso, rivivendo in un attimo la sua splendida vita.


Santa Grattarola


Riprendiamo la sua carriera artistica dal momento della costituzione del nostro sodalizio, risalente al 1970.
Da allora ha dedicato , ininterrottamente, preziose energie al teatro in vernacolo genovese (e ligure ), riuscendo a dividersi tra l’amore per il palcoscenico e la sua quarantennale attività professionale presso una storica azienda dolciaria genovese.
Ha  scelto quindi la possibilità di poter recitare senza lucro nel mondo amatoriale, e sempre con ruoli di protagonista , nelle vesti di personaggi cari alle tradizioni popolari non solo genovesi ( ricordiamo le mirabili interpretazioni da lei offerte  nelle commedie di Eduardo De Filippo tradotte dal napoletano in genovese dal compianto Giorgio Grassi )
Se analizziamo i suoi trascorsi teatrali possiamo affermare che detiene , nell’ambito della sua carriera nel teatro post - goviano (escluso il periodo antecedente il 1970 nel quando lavorò con Laerte Ottonelli , capo-comico fondatore della  Compagnia Città di Genova) un record invidiabile di partecipazione e dedizione artistica , raggiunto attraverso il suo lavoro in  ben 70 titoli  di commedie.
Per mera curiosità si può calcolare quanto tempo della sua vita Santa Grattarola  lo abbia dedicato al nostro sodalizio, in termini di  prove e successive rappresentazioni. Sommando infatti  il tempo di prova a  quello di palcoscenico siamo intorno alle 15.000 (quindicimila) ore che ,tradotto  in giorni lavorativi, fanno 2200 ore nette annuali per più di 7 anni continuativi!
Proviamo a fare due conti per spiegare come si è arrivati a questi numeri:
In media un testo di commedia  viene provato fuori scena circa 30 volte, con un impegno medio di 3 ore  e siamo quindi  a : 30 prove x 3 ore a prova  x 70 commedie  = 6300 ore.
A questo valore va aggiunto l’impegno di tempo relativo a quante volte ogni titolo è rappresentato ( circa  25 volte \ cadauno) quindi 70 commedie  x 25 repliche . = 1750 repliche.
Vero che è obbligatorio dedicare non meno di 5 ore per ogni replica (tra viaggio, permanenza in camerino per cambio abiti e trucco,  effettiva  permanenza di spettacolo)  le ore totali di impegno in teatro ammontano, nel caso della Grattarola,  a 1750 repliche  x 5  ore per replica= 8700 circa ore .
Ecco che  (6300+8700) ore = 15.000 ore ( come ricordato sopra)
(Non abbiamo calcolato il tempo necessario a memorizzare, per lei e chiunque reciti, la propria parte in copione, che si consolida non solo durante le prove).
Tutti i soci del nostro sodalizio culturale esprimono ancora oggi grande ammirazione per questa splendida figura di attrice che ha coniugato  la dedizione  artistica alla sua innata umanità e onestà intellettuale ,doti non sempre riscontrabili nel mondo dello spettacolo (ancorché non professionistico)
Diceva un grande uomo di teatro che l’unica cosa che distingue un bravo dilettante , comunque  non remunerabile, da un attore professionista è rappresentata dall’avere quest’ultimo l’obbligo di detrarre dal suo cachet i contributi pensionistici.
Genova dicembre 2013
Note raccolte da Lorenzo Bottero - socio TDSRL

    
Ě stata sino all'ultimo il nostro Presidente onorario di Compagnia e nonostante le sue tante primavere ci ha spronato ogni giorno nella passione teatrale

Iniziò giovanissima a frequentare i palcoscenici, prima  come cantante lirica, e poi attrice di prosa (e non solo dialettale).







Laerte Ottonelli  (Genova, 1906 - 1982)

Nel 1970, come visto nel capitolo della  nostra Storia, uno dei cofondatori della Compagnia  fu  Laerte Ottonelli.

Nativo di Cornigliano calcò le scene, giovanissimo,  nel teatrino del "Gymnasium" di Cornigliano e poi  nelle  Filodrammatica della "Società Ansaldo" e nel Dopolavoro Ferroviario di Sampierdarena  per recitare al fianco di Enrico Poggi e Bianca Zanardi, notissimi e bravi  attori dell’epoca.
Nel 1941 formò, con lo spirito gagliardo che lo contraddistingueva, il "Gruppo Artistico Dialettale" che agirà sistematicamente  nei numerosi "Dopolavoro" della Grande Genova , allargandosi nelle Riviere e nell’entroterra ligure, e ciò nonostante il non facile periodo bellico dell’epoca.
Finita la guerra entrò nella Compagnia di Gina  Solis, nota a livello nazionale, con ruoli da protagonista ed ebbe il merito di far conoscere il nostro dialetto genovese  per tutta l’Italia.
Egli  amava non interpretare tanto  ruoli di caratterista (ancorchè la sua vis-comica ne agevolasse il valore), bensì rendere credibile  e riconoscibile  agli occhi del pubblico  la normale umanità, fatta di vizi, di virtù,  di drammi e di  passioni.
Cresciuto ancor più artisticamente , nel  1960  poteva gestire uno spazio  tutto suo,il teatro  Italsider a Cornigliano, dove con la  sua Compagna  produsse  un vasto e scelto repertorio.
Tanto che teatri di grido,  quali il "Margherita" di Genova, il Verdi ed il Roma di Sestri, il Chiabrera di Savona, i Parchi di Nervi, il "Masini" di Faenza  lo vollero nei loro locandine.
Veniamo dunque al 1970, dove fonda, assieme a Gianni Orsetti e Tullio Mayer, il teatro dialettale stabile delle Regione Ligure.
Nell’arco di dodici anni, quindi sino al 1982 monopolizzò l’attività recitativa genovese con testi di autori a lui cari, come Pietro Valle (Regio de dina, Barba Gioxe, trei chinze trentun, I Miracoli di S. Pancrazio), di Marras (O maio de mae moggie, a scia Marinin), di Mendes (Mamma Clara): accanto a lui Santa Grattarola, Maria Riccobono, Egidia Cossu e altre attrici neofite (Laura Piccaluga, Carla Lauro), e sotto la moderna e frizzante regia di  Giorgio Grassi.
Nel 1980 fu splendido protagonista della commedia "A scia Marinin mae moae" (di Tiranti) che ne decretò la sua indiscussa statura di attore.
Grassi gli affidò inoltre il ruolo principale  in una delle commedie di Eduardo De Filippo da lui tradotte  dal napoletano al genovese ("I figgi no se pagan", adattamento di Filumena Marturano), che ebbe risonaza nazionale.
Ricordiamo che Laerte Ottonelli  recitò anche in ambito professionistico: venne chiamato da Luigi Squarzina  nel cast che portò sulle scene nazionali ed internazionali la commedia "Cinque giorni al porto" e nel 1975  prese  parte allo sceneggiato televisivo " Le Cinque stagioni" al fianco di attori come Gianni Santuccio, Tino Carraro, Carlo Romano, Isa Miranda.
Nel 1979 ricevette, per  meriti artistici, la medaglia d’oro dal Comune di Genova, nel 1972  quella della Regione  Liguria  ed infine il 2 giugno 1980 il Presidente Sandro Pertini gli concedette l’onorificenza di "Cavaliere della Repubblica, sempre per meriti artistici.


Ci lascio in eredità, quando usci nel  novembre 1982 dalla ribalta della vita, le sue grandissime bravura, simpatia, umanità, cioè tutte le doti da lui spese per affermare finalmente un teatro dialettale scevro dalla oleografia di rito, un teatro che raccontasse la quotidianità  della vita così come vissuta,  ma  sempre addolcita  da una giusta misura di  autoironia.  

Mario Dighero   (1925 –2009)


Ovvero "tutti i volti del teatro genovese": mattatore da tavole di palcoscenico, dalle più modeste a quelle più illustri.
Lo svezzamento artistico Mario Dighero lo ha presso il circolo cattolico di S. Martino : siamo negli anni ’40 e volenterose filodrammatiche alternano lavori in lingua dei vari Repossi, Castelli, Pazzaglia, Diego Fabbri a collaudati testi dialettali di impronta tradizionale .
Un primo salto di visibilità Dighero lo compie presso il Teatro di S. Francesco di Albaro, dove repertori tipo" o scio Lumetti", ancora un po’ parrocchiali, vengono inframmezzati da rivistine di ragazzi pieni di idee e di gusto moderno .
Egli spicca tra i neofiti amatori dialettali per la sua innata verve comica, perfetto negli sketches in dialetto e nelle caratterizzazioni ( e poi vedremo che grazie a ciò andrà diritto nella Baistrocchi…), uno dei primi a svecchiare il clima borghese del repertorio goviano.
All’inizio degli anni ’50, giovane maestro di scuola adorato dagli allievi per la sua cordialità, concilia lavoro, famiglia, e "recite" .
Non trascura neanche lo studio del violino, che gli tornerà utile in scena ( indimenticabili i brani suonati assieme al pianista Maestro Ernesto G. Oppicelli nella commedia " Giovanna Ritorna" di Vito Elio Petrucci nel 1979 ).
E viene notato da Enzo Tortora: entra d’impeto nella Compagnia Goliardica Baistrocchi, dove già alcuni mostri sacri, da Pino Willimer a Nico Fontanegli, da U. Testori a P. Campodonico, da L. Dambra a Paolo Villaggio ( tanto per citarne soltanto alcuni) e lo stesso Enzo Tortora deliziano il pubblico più smaliziato.
Nei titoli cult "regalo per papà ", l’ora di marte", "babau","bella se vuoi venire" a cavallo degli anni ’50 –‘60 lo vedono impegnato in esilaranti caratterizzazioni. Ma il varietà della rivista goliardica non lo sottrae al teatro dialettale, anzi, ovunque avvenga una messa in scena in vernacolo Mario Dighero è sotto i riflettori : per la sua mimica segaligna intessuta di stupori e sguardi ammiccanti, anche se risolta da sorrisi ironici che giungono come staffilate, e per le battute che gli escono scandite secondo lo stile di una personale e stilizzata genovesità.
Può impersonare di tutto, l’armatore e il travet,il cittadino ed il campagnolo dell’Appennino, e colleziona una galleria di tipi, proverbiali e no, che confermano le sue doti di mattatore.
E quando, alla fine degli anni 60, il teatro dialettale ha un nuovo risveglio post – goviano, Dighero, che è in prima linea ovunque si reciti non solo in dialetto, diventa un fedelissimo socio della nostra Compagnia ( 1970).
Il nucleo della sua presenza è decisamente volto al comico ma all’occorrenza sa abbordare le note sentimentali e intimistiche. addirittura si rivela attore drammatico,oltre la prosa dialettale, in una rubrica televisiva "Pronto soccorso".
Dighero cura anche tre brillanti regie per " O battezzo","Ettore Resasco &c"," O maio de mae mogge" nel biennio ’76 -77, ma sino alla sua dipartita nel 2009 copre come protagonista tutta la produzione di Pietro Valle, autore da noi prediletto ( ricordiamo qualche titolo : di "O barba Gioxe", "3,15,31", "regio de dina").
Notevole è la sua raccolta di premi e riconoscimenti :
1973 premio Zena del Circolo Mario Cappello,1980 Trofeo Angela Daniela, 1982 Premio Regione Liguria,1983 Genovino d’oro delle Rassegna Caroli, 1986 bis del 1983, 1992 premio dei 25 anni di artista da Teatro Tempietto e Sala Carignano,1993 premio di Chiavari " O castello", 1996 premio assessore regionale alla cultura e maschera d’argento F.I.T.A, oltre pergamene e medaglie di associazioni culturali cittadine.
Uno dei due suoi figli, Ugo, sulle orme del nobile padre Mario ha raggiunto il traguardo di notorietà nazionale a livello professionale in campo televisivo, del cabaret, del cinema, del Teatro in lingua: e pensare che da bambino aveva calcato talvolta la scena con noi modesti dilettanti .
Anche la figlia Paola, prematuramente scomparsa, aveva addolcito negli anni ’80 con la sua leggiadria le sapide battute del padre.
Rina Govi diceva di lui "è un bravo attore ed un gran signore, e quello che apprezzo di più in lui è che mai ha parlato male dei suoi pari artisti".
Nel 2006 Mario Dighero conclude assieme al figlio Ugo nello spettacolo" Dighero al quadrato" la sua fantastica avventura artistica.


 
Ermanno Bruschini

1927  -1994
 
L’eclettico insostituibile caratterista …
 
Nel 1972 chi scrive queste note, già in Teatro da due anni, “obbligò” l’amico e collega aziendale Ermanno a entrare in Compagnia : a fianco dei noti mattatori Giorgio Grassi e Laerte Ottonelli (vedi  schede) era indispensabile ormai collocare una figura da caratterista di grande rilievo.
Ermanno  era già un bravo pittore ed  uno spirito libero da artista , dotato di una auto – ironia non comune, e per salire le tavole del palcoscenico ci mise un attimo : non ebbe bisogno di fare gavetta , perché connaturati aveva l’empatia con il pubblico e la piena  intesa  con il cast  ed i suoi compagni di recita.
E  come se  non bastasse, si dedicò anche alla parte tecnica nel dietro quinte , al restauro di mobili di scena, sempre in un clima di  stile baistrocchino : ogni evento assumeva i migliori tratti delle frizzanti pochade della  vita.

Teatro nel teatro, come si suol dire, o meglio commedia dell’arte.
Se è poi vero che il riso fa buon sangue, io ed altri amici di Compagnia siamo debitori con lui per  averci regalato un bel po’ di salute aggiuntiva.
I suoi personaggi furono resi in modo teatralmente perfetto:  dal napoletano immigrato in Liguria “Gh’ea na votta un paise" allo strozzino Sgranfigna in “3,15,31 terno secco”, dall’aiuto  maggiordomo  di “Semmo misci scia Marcheisa” al  condomino  macerato in “Man de velluo”, dal ribaldo avventore di taverna  in “ I cosciotti da scia Mancia” al fratello del capofamiglia in “Natale in casa Cupiello“ declinato in casa Merello  nelle genovesizzazione del famoso  lavoro  di Eduardo da  parte di Giorgio Grassi ( vedi scheda).
Altre decine di sue brillanti interpretazioni  ne resero obbligato il suo lavoro in Compagnia, come  indispensabile  divenne  sua figlia Gabriella, non solo omnipresente attrice ma anche  trova –robe, suggeritrice, infallibile  controllore di copioni , oggetti,  costumi da inscatolare nel viaggio verso il Teatro  da raggiungere.
Nel 1977 una  brutta patologia, fortunatamente superata, non fermò la sua passione  di attore ma  la sua voce   sub ì una danno  sensibile , in parte  ridotto  con l’ausiglio tecnologico di un  microfono senza fili.
 Nel periodo bellico, appena  sedicenne, aveva patito  la deportazione in campo di lavoro nazista, dal quale era riuscìto a sopravvivere  e rientrare inToscana percorrendo  a piedi  il tragitto .
Mai scorderò i racconti tra il tragicomico ed il grottesco  del  suo periodo  in Germania, egli riusciva a generare l divertimento anche su eventi tragici attraverso metafore e  immagini  di una commovente  leggerezza poetica.
E quando imitava la parlata teutonica ( che peraltro ben conosceva) dovevi fermarti ovunque tu fossi e semplicemente ridere sino alle lacrime.
La  sua  generosa amicizia la perdemmo nel 1994 e il mio rimorso personale è quello di non essere riuscito a correre in tempo al suo capezzale ,avvisato da Gabriella, in quanto mi trovavo sull’Appennino sotto un infernale temporale notturno  e con l’automobile inutilizzabile.
 
Genova   febbraio 2015  
Lorenzo Bottero

MARIA RICCOBONO
1940 - 2023

Attrice, vice regista

Alla metà degli lì anni 1960 Laerte Ottonelli, del quale ho lungamente parlato nel libro, fonda, come detto La Compagnia "Città di Genova", contornandosi di un affiatato gruppo di amatori del dialetto, tanto da affermarsi incontrastata per ben due anni consecutivi nella Rassegna dei dialettali italiani indetta dall'Ente l del Comune di Faenza.
Nel 1965 con la commedia " Barudda e Pipia " di Carlo Bocca la Compagnia si aggiudica tutti i  sette premi in palio, e nel 1966 con il lavoro di Pietro Valle "o barba Gioxe" stravince sui venti concorrenti, aggiudicandosene altri cinque.
La fama della Compagnia si assicura le successive partecipazioni nella città di Faenza che racconto nel libro,  negli anni dove da poco si è costituito il nuovo Ente teatrale, fondato  proprio da Laerte Ottonelli con altri due uomini di grande talento  ( Tullio Mayer e Gianni Orsetti coadiuvati da Michele Lattanzio).
Ai tempi il  Comune di Genova, nel caso con l'assessore alle attività culturali Giovanni Benvenuto, fa parte delle trasferte. Ho fatto questa premessa per presentare meglio al lettore Maria Riccobono, allevata nel vivaio di attrici che danno lustro alla nostra città sotto la guida di Laerte Ottonelli: Fernanda Carlo, Ileana Facelli, Gilda Facelli, Claudia Grassi, Egidia Cossu, Lauretta Piccaluga, Renza Piccinino, Gilda Torre, Santa Grattarola.
Tra ii attori troviamo: Ermes Bettero, G. B. Garbuggino, Romano Ghersi, Carlo Grattarola, Nino Lungo, Guerrino Razzanti, Tino Razzore.
Nel 1967 Maria Riccobono è nel cast del lavoro messo in scena dalla" Città di Genova" intitolato " l'Avaro" e sul quale rimando il lettore alle prime pagine del presente libro.
La sua bravura recitativa e "beltade" naturale ne consacreranno il gradimento del pubblico in tutte le sue partecipazioni nei successivi lavori teatrali in seno al nostro Teatro Dialettale Stabile della Regione Ligure.
Tanto da divenire la obbligata vice prima donna di Compagnia , quale eccellente spalla di Santa Grattarola, e al cui ritiro ne assumerà i ruoli da protagonista.
Dalla sequenza delle locandine degli spettacoli visibili in allegato A è facile incontrare il suo nome nei primi posti di ogni cast e nel seguito in prima posizione.
Ritengo credibile che Maria Riccobono sia alla pari di Santa Grattarola in termini di dedizione al palcoscenico dialettale, sempre attraverso professionalità, puntualità, convinzione. Tutte virtù, a mio avviso, ormai rare nel campo dello spettacolo in genere.
Bene chiosava chi disse che un attore professionale e uno amatoriale spesso si distinguono soltanto perché il primo ha in più del secondo un formale contratto d'ingaggio.
 
(Nella foto Maria Riccobono interpreta Madame Violantinn-a Ferrari nel lavoro" Sarto pe scignoa"
andato in scena nel 1975 ).



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del Teatro Dialettale Stabile della Regione Ligure - Sito a cura di  Piergiorgio Razeti
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